La porta ha la vernice scrostata e cigola dai gangheri al primo colpetto di vento. Ci vuole niente a buttarla giù. Ma bisogna bussare piano, invece, e rimboccare le maniche al rispetto, se si vuol provare a fare anche solo un passo oltre lo sguardo, bloccato come un sasso sulla sua maniglia; perché dietro di lei c’è un mondo a tinte abbacinanti e se non impari prima a educarli, gli occhi, di lì non ci puoi passare.
Siamo tra i blocks, tra gli isolati di palazzi che anche solo l’odore già ti fa capire. Un nulla tra mito e inferno, un tutto che non puoi dire quartiere. È un humus nutrito a furia di limiti infranti, è il Bronx.
C’è una New York che i pullman dei turisti si blindano per portarci in visita le videocamere e i telefonini. E che tu è meglio che te lo togli l’orologio anche se dal sedile sai che non ti va di muoverti. Assomiglia a niente e a tanti altri posti, stavolta sulla West Coast, dove bazzicano e si strattonano gli orgogli disastrati di ragazzi mai troppo piccoli per crescere per strada. Siamo negli anni ’90, ma proprio sugli inizi. E tra i bidoni pesti di avanzi di problemi masticati male e una strada che è più madre di quella che ti ha messo al mondo, navigano gli anni adolescenti spaccati a calci dai buchi neri di una gioventù iniziata senza bussole né futuro, perché sei afro, o latinoamericano e questo basta a marchiarti a sangue l’esistenza.
Davanti hai solo la tua faccia, mani che fremono, il corpo che è un fascio di rabbia e non può neanche esplodere, e una voce in gola che graffia e urla fino a che la lasci uscire per forza, per odio o per amore.
Il sangue sa di jazz mescolato di risonanze reggae. Un nonno da qualche parte in Africa ha lottato per morderla questa vita e tu sotto la maglietta hai in petto tutto quello che vuoi fare a chi ti ha massacrato la madre e la sorella, e forse anche tuo padre, un giorno sai che sarà solo un altro segno sul tuo braccio. I soldi mancano, la “roba” non è buona e tu stai male.
Ma senza musica non si vive. Nemmeno lì. Il decennio del rock e del baby-boom post atomico ha portato la sottile allegria di fondo dell’hip-hop. Sotto l’amaro dei veleni scanditi sulla break dance, giù a volteggiare rannicchiati come atleti sulla schiena, c’è un ultimo sentore caldo che rimanda quasi al sole spensierato dei ragazzi bene. Ma qui di dolce non c’è rimasto nulla. Gli anni ’70 iniziano duri e il ritmo spacca dalle casse delle radio. Il primo che non ne può più lancia la nota d’inizio e nasce la leggenda, è RAP. Agguerrito e a volte languido come ogni figlio giovane che si apre al mondo. Dell’hip-hop prende il tempo, ma se lo reinventa addosso. Verranno fuori dopo, con gli anni ’80, i primi nomi grandi come Public Enemy o i Run-DMC. Fino ad arrivare ai miti dei ’90 e ai rapper con più cuori su Instagram che la loro guerra l’hanno vinta a mani basse e l’oro della collana esagerata al collo lo flexano con lo charme naturale di chi ha le spalle grosse e la limousine fuori dallo studio e non si è mai scordato da dove nasce la sua voce.
Ma andiamo per ordine, varchiamo quello sguardo oltre la porta.
RAP: anima sporca e sangue che brucia la voce nelle vene per un mondo che si schiude e ti inchioda l’orecchio tra le cicatrici e il block.
Se negli anni ’70 si inizia a sincopare il suono sullo scratch improvvisato di pezzi che un DJ mescola d’esperienza e ridisegna daccapo strappando la puntina su un vinile, è più in là nel tempo che si impara a creare basi, annodate di sound come tappeti di sete e stracci fitti, su cui far scivolare arse le voci basse degli MCs, i rapper veri e propri. La drum machine, quella scatola nera che riproduce e sovrappone ricreandole le percussioni, targa la strada di elettronico.
Due fili di lessico e una pausa, per collocarci meglio nello spazio delle note
La leggenda vuole RAP acronimo di Rhythm and Poetry, ritmo e poesia; che non è vero ma è una bella storia e rende tutta l’idea. In realtà però, to rap significa bussare, colpire con le nocche, e poi per estensione gergale, parlare velocissimamente, proprio come accade sui pezzi rap, tanto che tecnicamente il nostro neo acquisito “rappare” a oggi equivale all’inglese “talking rhytmically over a beat”.
Dove il beat è il battito, la base musicale su cui si fa girare il parlato del MC, master of ceremony, l’”extrabeat” è il raddoppiamento della velocità del rappato che fa sì che la scansione sillabica passi da 16 a 32 barre, ossia battute conteggiate su un telaio di quattro quarti.
Ora, è proprio partire da queste costruzioni ritmiche, che ci avvicina meglio a percepire cosa abbia reso e renda intramontabilmente irresistibili all’amore del pubblico i leggendari Notorious B.I.G., Kendrick Lamar o Andre 3000 degli Outkast. È il “flow”, la metrica impressa al pezzo dal rapper dopo aver scelto le sillabe, più e prima ancora delle parole, in modo che sonorità, significato e ritmica stessa del pezzo si fondano fino a poter esprimere nel modo più completo e istintuale possibile la sensazione di fondo e la pulsione creativa che hanno ispirato il brano.
Si parla di “delivery”, letteralmente di consegna dei versi al pubblico. Entra in gioco tutta l’energia comunicativa del MC, la sua capacità di tenere viva l’empatia attraverso lo sguardo, la voce, le pause, il contatto visivo ritmato dal brano, e il suo trasmettere emozioni attraverso il movimento del corpo. È una comunicazione di pancia, questa musica. Nasce dal fondo di uno stomaco dilaniato di rancori sovrapposti, di isolamento e di amore ancora grande per la vita. Può parlare solo così, strascinandosi strapazzato sulle raucedini di voci mai fredde, che restano nelle vene come una carta vetrata irrinunciabile, anche quando gli sparano come successe proprio a Notorious o a Tupac.
Indimenticabili. Eterni, che li si ami o no
Tanto viscerali da morirci ammazzati per quei versi. Tanto sfacciatamente devoti all’idea di un riscatto sociale da strappare unghie e denti, da scriverle e spedirle chiare e dirette al destinatario quelle rime. Le faide tra rapper non hanno mai smesso di fare morti.
Sono i “beef”, è una faida esacerbata tra due rapper o due fazioni di MCs. Si duella di sciabola e colpi di freccia coi “dissing”, strofe, rime o un intero brano consacrato a insultare e umiliare tecnicamente oltre che umanamente un altro rapper, fino, a volte all’intimidazione diretta che prelude a possibili scontri successivi.
Tutto questo in Europa non avviene in modo così agre. I contesti sono diversi, troppo, il rap da noi incarna passioni ma non si esaspera, si armonizza e riesce ad arrivare, trasversale alle generazioni fino a portare, passi e passi oltre i rapper, anche la trap e l’indie a lambire i nostri piani Spotify e a fermarcisi più a lungo che per un caffè. Compare Khalid sulle playlist. Sussurra, e non lo lasci più.
Sono musiche di strada quelle degli MCs, che battono il ritmo di un quotidiano strappato via a tanti di quei pensieri e guai da riempirne tutto un libro di storia, altro che capitoli. Passeggiarci dentro insegna molto. E rimane impossibile non lasciar volare il pensiero agli stornelli, alla pizzica, alla taranta. Fermargli le ali quando sfiora la tammurriata o i duelli improvvisati dei cantastorie medievali, come i “freestyler”… Quanta pelle bruciata, quanti battiti potenti… Ma di tutto questo magari parleremo un’altra volta, lasciando quella porticina appena schiusa per tornare a bussarci dolcemente sopra quando ci chiamerà.
Jelka Giocoli Damiani