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Cecchettin: l’eco nuda di un atto assurdo

C’è qualcosa che va tremendamente oltre l’eco nuda e cruda delle notizie che si ricorrono senza logiche, come palline impazzite di un flipper maledetto, quando accade qualcosa che sconvolge male le coordinate della comunemente intesa normalità. È qualcosa che nasce tra i dietro le quinte delle “due guerre” di Ivano schiaffati sul viso della Cortellesi, che cresce muto dietro le persiane chiuse. E sono, forti e chiari, le voci e gli sguardi che ci racconta Serena Dandini nel suo sempre più drammaticamente attuale e importante, “Ferite a Morte – dieci anni dopo” che tanto avremmo voluto rimanesse una testimonianza del passato e rappresenta invece ai giorni nostri sempre più donne che hanno pagato con la vita un incontro disgraziato.

Proprio dall’assordante dissonanza tra ordine presunto e crimine effettivo sgorga quel frastuono che dal capitolo cronaca rimbalza in trasparenza da un telegiornale all’altro, e poi sfugge al tangibile ingrossando i toni di bisbiglio in bisbiglio, senza che realmente si riesca a prendere coscienza della sostanza, a comprendere la portata vera l’accaduto.

È un groviglio di torbido, un impiastro di ignobile, maleolente come un velo sporco di cenere spessa che spegne le palpebre e chiude ogni speranza di vedere lucido. E smonta, spiazza, inebetisce. Come il precipizio dietro una curva a gomito che non ti aspetteresti mai e che finisce inesorabilmente per spartire le acque e creare due fronti opposti di opinioni pubbliche spesso esaltate di pulsioni disperate, o come in questi giorni, invelenite dalla smania di persecuzione sommaria e cattiverie.

È esattamente il caso del tumulto devastatore che si scatena da giorni di fronte a un delitto troppo inconcepibilmente atroce come quello di Giulia Cecchettin, l’ennesimo massacro assurdo dell’accanimento sulle femmine.

Femmine, sì, perche la donna che c’è dietro o dentro al genere non viene nemmeno presa in considerazione.

Mentre ci attraversa l’anima il sorriso straordinariamente bello del sole che quella ragazza custodiva dentro, e ci resta addosso come un tatuaggio di cielo ingenuo, è ora di alzarci e capire che basta, che è tempo serio adesso e che bisogna sanarle le piaghe, dalle radici ai segni, fino a cambiare passo, vocabolario e convenzioni sociali da sempre senza senso.

Altrimenti quegli insulti a vuoto, apoteosi e di diterologie malate, continueranno a spezzare anche i principi stessi delle libertà fondamentali di pensiero e di espressione. Perché se condannare è già compito che non compete se non forse a magistrati edotti o a esseri supremi, farlo alla cieca, spruzzando odio su persone e storie di cui non si conosce nulla, è tra i le porcherie più vili che la voce di pochi o di massa possa compiere.

Certo che un massacro tanto truce lacera in brandelli l’orientamento e può disintegrare anche l’ultima traccia di sicurezza.

È il confine tra concepibile e inconcepibile, che arriva dritto in faccia e si scopre a vivo come una ferita aperta, è l’inimmaginabile della perdizione umana, che appare oltre lo specchio, è quel turbine che sgretola in un nulla pezzo a pezzo anche i più fermi equilibri emozionali e quel po’ di raziocinio conquistato a fatica tra un affanno irrisolto e un retaggio di passato ancora tutto da capire.
È il “ma come diavolo è possibile” a cui non si sa rispondere.

Come ora. Quello sta succedendo col bombardamento di cattiveria e critiche scaraventato in faccia a Gino ed Elena Cecchettin è una rimessa in discussione di ogni cosa per il peggior perverso gusto della critica, del distruggere ciò che non si riesce a comprendere perché è troppo più libero, più grande e consapevole per provare anche solo a conoscerne un lato prima di permettersi di avere un’opinione.

Una lapidazione sporca come le tastiere consumate di supponenza ignorante, volutamente cieca e sorda alla potenza dignitosamente intima del dolore altrui.

Quando non può capire l’essere umano esclude, probabilmente invidia e inevitabilmente odia, se poi ha bisogno di un “peggio” da storpiare d’insulti per colmare vuoti personali imperscrutabili troppo crudi da affrontare, può infrangere ben altro che le emozioni.

I Cecchettin che questo martellamento di sporcizia sta trattando come carne da macello,
hanno l’immensa colpa di non soffrire come benpensantismo esigerebbe, di uscire fuori dagli schemi in cui vanno incasellati in ordine e silenzio prima di tutto i sentimenti più spontaneamente autentici, pure per aver diritto a piangere a modo proprio la figlia e la sorella morta ammazzata di follia furente.
Dovevano stare lì zitti blindati di disperazione a vita – o forse morte, poco importa – nel loro pianto mesto, silenzioso e discreto. Che se non si sentono danno meno fastidio, e invece così fanno rumore, tanto, assordano anche i peggiori, e magari accendono, magari sì, la luce buona che come nel vecchio spot di una bevanda allegra, passava di mano in mano e faceva nascere una voce unica, stavolta contro l’odio è il massacro, ma prima di ogni cosa per il rispetto.

Solo che rispetto è una parola impegnativa per chi di capire non ha voglia. C’è tutta la miseria umana in quegli insulti, e non morirà di asfissia finché non cambieranno schemi e soprattutto modelli educativi.

E tuttavia il futuro è quel sorriso, la sua luce da cui partire con tutta la forza necessaria per riscrivere le regole e con esse le coscienze e la responsabilità sociale. Perché davvero, ma davvero, non si più aspettare.

Jelka Giocoli Damiani

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