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Kafka e la bambola viaggiatrice (Sierra I Fabra)

1924. Una Berlino qualsiasi che osa appena tornare a credere. Spera nella sua industria, si toglie stremata la maschera dell’ossigeno e guarda il Ministro Stresemann onorare gli Esteri col piano Dawes da mettere in atto, che gli varrà il Nobel e la notorietà.

Franz Kafka che passeggia come ogni giorno con la donna che gli sarà accanto nel suo ultimo anno di vita. Parte da qui la storia. È frastornata, la Germania in cui si muovono i nostri due, intirizzita dai venti di guerra che le hanno spaccato la pelle col gelo della fame e monti di banconote che non valgono più nulla. All’orizzonte il futuro assurdo pronto a sorgere dietro il berretto baffuto di Adolf Hitler. Veste i brandelli dell’iperinflazione dell’anno precedente, la Berlino che ci scorre sotto gli occhi. Nessuna traccia dei Roaring Twenties che fanno luccicare mezzo mondo, in quei pomeriggi di gente per bene, lì a cercare normalità in quel che resta dei viali e dei tigli cittadini.

La crisi produce pure nel distruggere e l’arte tedesca graffia, intrisa com’è del dramma feroce di quegli anni di Weimar. Sono intense le opere pittoriche e si scrive. Franz Kafka è in primo piano. Una penna fertile e microcosmi che si intersecano e stridono con l’ordinario e il concepibile. Spintona l’anima, scrive forte, è esattamente le contraddizioni acute di quegli anni. Qui però è un Kafka diverso. Protagonista della storia, ma non autore, ne è tutta l’anima. Lui, insieme a una bambina spersa che è il suo opposto e il suo profondo, e allaccia con lui il tempo a un filo immaginario che non si spezzerà.

L’autore

Jordi Sierra i Fabra, storico del rock, scrittore e giornalista nato a Barcellona nel ‘47, parte dal ricordo di un incontro descritto in poche righe da Dora Diamant, compagna Kafka nel suo ultimo anno di vita, per spiegare le ali di un volo immaginifico attraverso l’animo umano e le sue mille intime sfumature, determinanti e vitali nei passaggi obbligati dei nostri anni. Sono pagine snelle, emozioni inarginabili, e un planare dall’infanzia al futuro tutto quanto da scoprire.

La storia

Un pomeriggio al parco Steglitz, Franz Kafka, Dora, la loro passeggiata quotidiana, gli alberi e le fontane a sbiadire gli ultimi mesi della tubercolosi che condurrà lui alla morte pochi mesi dopo. Due passi più in là una bambinetta, sola in quel verde familiare, che piange disperata. Franz e Dora si avvicinano, lui la saluta, le chiede cosa c’è. Ha perso la sua bambola. Brigida. “Quando la vita sboccia porte e finestre sono tutte aperte” scrive Sierra. E ha ragione. Sotto gli occhi e nel cuore di Kafka si spalancano, quelle porte, svelando tutta la potenza dei sentimenti bambini, quelli che nascono e urlano allo stato puro, respirano ampio e piangono ancora più forte perché certe cose sono troppo grandi per essere giuste. Sempre. Esce un Kafka diverso, confidenziale, che coglie l’immediatezza del sentire e ne fa fiaba. Brigida allora non si è persa, è partita in viaggio, perché le brave bambole, quelle intelligenti, vogliono e devono scoprire il mondo. Ma alla sua “padroncina” vuole bene, le scrive, le ha scritto. E lui lo sa, perché è il postino delle bambole.

Eccola, la magia. Quella che incanta la bambina, Elsi, e anche gli adulti, perché alla fine, anche e sempre fino all’ultimo respiro, di magia ne abbiamo bisogno tutti. 

Con Jordi Sierra si salta a grandi passi tra le righe. Viene voglia di correre e di centellinare piano piano. Frasi fitte, fino ai brividi a pelle nuda. Scivolano sulle emozioni le pagine e ora hanno un appuntamento il giorno dopo, Franz e la bimba. Stesso posto, e lui, da bravo postino, le porterà la lettera di Brigida, la prima dal suo viaggio.  Solo che la deve scrivere, Franz Kafka, e ci passerà la notte, proprio come farà per molte altre notti di lì in avanti, inventando il viaggio di Brigida intorno a un mondo che la piccolina sognerà, sul percorso che traccerà in lei molto più dell’itinerario di una bambola viaggiatrice.

Il prodigio di questo racconto, a cavallo tra realtà e fiaba, sta nei risvolti più autentici dell’anima. Si stacca il senso intrinseco dal suono stesso delle parole pur scelte con grande cura a dipingere quel viaggio, quel progressivo, ineluttabile distacco che la vita comporta fin dal suo soffio d’inizio. Nel pianto, nelle ore di Kafka passate a scrivere, c’è tutto il senso dell’amore, con le sue sicurezze e i suoi timori, c’è l’imprevisto, lo sbandamento interiore nell’obbligo di affrontarlo. C’è la mancanza, il dolore sordo profondo che porta, c’è quell’orrenda cosa che è il distacco e la fatica grande del lasciare andare qualcosa o qualcuno che dal cuore non sparirà mai comunque vada. E poi c’è la rinascita, la nuova gioia, la speranza, il sorriso aperto che ci dona, il sogno. Ci sono la certezza, la confidenza, la fiducia e quella voglia di scoprire che rende irresistibile la vita.

È un viaggio emozionale nel bisogno di credere e di amare, quello di Brigida, che ci trascina a sentire tutto a fior di pelle sulla sua giostrina spensierata, è un Kafka che sa essere fatato e una bambina che si fa più grande sotto la protezione di quella fantasia scritta. Calza come un guanto alle manine piccole di Elsi questa realtà della finzione che consola e scalda il cuore. Un viaggio vero, tra le onde della vita. Un battito di ciglia in fondo al cuore. Un piccolo capolavoro in un sussurro di sogni che abbassa le difese e ci cambia in poche pagine. Perché come dice Brigida i “I miei viaggi mi hanno cambiata”, succede così, ma l’animo resta quello, inafferrabilmente sensibile e pronto a crederci di nuovo, sempre.

Jordi Sierra chiude con una gemma questo piccolo giro di sogni e ci lascia un abbraccio tutto da custodire: “ogni cosa che tu ami è molto probabile che tu la perderai, però alla fine l’amore muterà in una forma diversa”.  Sì. Proprio così.

Jelka Giocoli Damiani

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