Ci ha raccontato, Michela Murgia, come in una eucarestia di vita, ogni goccia dell’uragano che le ha falcidiato il corpo e corroso il cuore fino a liquefarlo. Lo ha fatto con amore e intelligenza, sciogliendo libera la profondità straordinaria del suo talento naturale per la comprensione, che le ha consentito di includere e abbracciare anche il suo male come un tempo e uno spazio in più in cui far battere la vita e donarla agli altri, a tutti gli altri. Ha lasciato chiudersi le palpebre sopra la notte dei desideri e delle stelle, nella città che culla sotto la croce Vaticano, storie umane e teologia. Ieri è già lontano e lei vicina. Quasi qui.
Quell’ultimo fulmine sapevamo sarebbe arrivato a bruciare il fragore della notizia con un folgorio di silenzio che fluisce dall’anima come il sapere istintivo e ancestrale dell’Accabadora.
Michela Murgia ha disegnato un mondo e lo ha creato, vissuto, consumato e rianimato con il coraggio totalizzante della consapevolezza, l’umiltà della cultura vera e la spregiudicatezza di chi sa che le è anche dato di inventarla, ricreandola ogni volta, se vuole, questa vita. Ha fatto delle regole uno strumento d’armonia benefica e non un limite, ha posto soglie dove c’erano muri, ha liberato lo spirito e sbrigliato il cervello per condividere moltiplicandole le idee e le sensazioni.
La Sardegna le intride le origini, la racconterà con Accabadora e con tanti altri semplicissimi passi in cui ricorda a gola stretta la violenza dell’uomo che l’ha messa al mondo, la sottomissione all’ordine della donna che l’ha concepita e il bene puro dei suoi zii, madre e padre autentici anche suoi, tanto da farle poi capire come padre o madre siano ruoli e non persone.
Studia la teologia, si laurea, cosa che in quegli anni, per una donna specialmente era cosa rara e certo singolare, scopre Maestri a cui sarà profondamente grata, essenziale per lei la biblista Marinella Perroni, che le insegna come la bibbia possa essere scomposta e ricreata in modo liberatorio.
Il cristianesimo come religione dell’et-et e non dell’aut-aut
La chiave che le mette in mano la Perroni sarà quella che darà il via a una concezione del cristianesimo come fede dell’accoglienza, come filosofia, o principio di vita, in ogni caso, che abbraccia, che capisce e vuol far sì che non ci siano più periferie cittadine o esistenziali in cui sbattere via chiunque non sia conforme allo stampino di un precetto convenzionalmente imposto.
Scriverà tutto questo e molto, molto di più, guardando dentro al macrocosmo delle donne, troppo spesso afono per volere sociale. Affronterà i temi più esposti dell’esistere umano: la nascita, la morte, la famiglia, le passioni e il voler bene, l’amore e l’amare, il volere e il sapere, la verità libera e la menzogna coperta di seta. Sarà sé stessa e tutti noi, fino in fondo, fino all’ultimo.
Lei e quella famiglia queer che vivrà a lungo fiera grazie a lei, in una società che comunque vada la incarnerà e la incarna già sempre di più, finché scomparirà nell’evidenza anche il bisogno di definirla, la famiglia d’anima e si fonderanno le vite sulle affinità, come è naturale che sia, molto più che sul sangue o sulle convenienze. Perché è solo la magica alchimia di un’empatia perfetta a saper creare rapporti veri, questo ci ha fatto riscoprire la Murgia, e non finirà certo adesso di insegnarci a ricordarlo.
Lasciar scorrere la tastiera è troppo facile pensando a lei, ma ora è solo tempo di centellinare di Michela Murgia ogni vibrazione di voce che ci resta dentro; oltre il Campiello, il Dessì e il SuperMondello dell’Accabadora, oltre Morgana, e le storie di ragazze che tua madre non approverebbe, piccolo immenso capolavoro scritto con la collaborazione di Chiara Tartaglini. Oltre, anche, quel grido lanciato a quattro mani con Loredana Lipperini che squarcia il velo sul femminicidio e urla la verità ne L’ho uccisa perché l’amavo: falso! pubblicato dieci anni fa ma ancora tragicamente e odiosamente attuale, mentre tanti, ancora, vorrebbero chiuderla sbeffeggiandola in un barattolo con su l’etichetta “femminista” per finirla così.
E allora solo un salto indietro al 2011, perché in Ave Mary. E la chiesa inventò la donna c’è veramente un mondo da andare scoprire. Ironia e tratto pulito, intelligenza e una semplicità incisiva disarmante fanno di ogni riga una gemma che merita di essere stretta almeno un attimo tra le mani, magari anche giunte a pregare che l’autenticità trionfi in un’alba più che mai vicina della nostra umanità.
Ci lascia con Tre Ciotole, un titolo che è già dentro di sé premura, accoglienza e amore puro. Va via così, col suo meraviglioso abito rosso vivo e un passo colto e lieve di danza lontana su un sorriso che neanche il silenzio può sbiadire. A noi resta di amarla, lei che amava tanto e non sapeva innamorarsi. Magari un giorno lo farà, ci riuscirà sorprendendoci e accattivandoci ancora tutti quanti.
Per ora ciao, Michela bella, ciao da noi.
Jelka Giocoli Damiani