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Addio a Françoise Gilot, la musa di Picasso

Françoise Gilot: se ne va a 101 anni l’immensa musa amazzone, compagna di Pablo Picasso e della sua Mala Arte.

Scivola via sull’orlo di un ultimo fiato il cuore inafferrabile di Françoise Gilot. Si lascia andare, per una volta, a uno scorrere degli eventi che la vuole lontana da questo mondo, per lei da sempre, prima di ogni cosa il gioco preferito da tenere saldo in mano. Sontuosa “Femme en Fleur” nell’allegorica “La Joie de Vivre”, dipinta in Costa Azzurra da colui che è stato padre dei suoi figli e del cubismo squarciato nitido, che lacerò regole e sicurezze artistiche e concettuali con un sberleffo di pennello colto, Françoise sorride e passa. Altrove, o in nessun posto. Forse con lui. Forse con i suoi sogni. Per sempre.

Compagna di passione sciagurata e amore divorante, che si prese l’anima di Picasso – lui quasi tre volte la sua età e lei appena ventunenne – sarà per dieci anni la sua musa, l’ossigeno senza il quale non ha sapore nulla. Ribelle e burrascosa, ma anche preziosissima madre di Claude e Paloma, Picasso la amerà più di ogni altra e lui per lei sarà l’amore forte, quello vero.

Gli occhi grandi di quel verde libero profondo inarginabile, che sposta gli orizzonti oltre la linea del possibile, sfrontata come il corallo acceso del rossetto che le accompagnerà per quasi un secolo il muoversi della voce, amazzone di un’indole che non si placa neanche falcidiata dal vento, si fa arrestare il corpo dalla Polizia tedesca nell’autunno del ’40, ma mai l’orgoglio consapevole di ragazza decisa, che è pura esaltazione di un intelletto che non batti.

Artista nelle vene, donna infinitamente femmina con l’arte accesa del pensiero eccelso che si scioglie in un sentire arguto spudoratamente simile al salmastro vivace delle brezze d’Antibes, Françoise è una sfida impudente, una fronte che non teme il sole, né la luce di un genio che non potrà mai possedere la sua audacia.

Parlano la stessa lingua, lei e il Maestro. Intersecano le loro arti, scambiano ispirazioni in un’osmosi d’animo che graffia le mani di entrambi e si sublima in quella sincronia di passi, e tocchi e fiati che all’umano è dato una volta sola di trovare. Françoise e Picasso si riconoscono, lo sanno dentro, e non ce n’è più per nessuno. Dipendenza e libertà, le facce opposte dei loro volti. Diametralmente opposte; tanto da sfiorarsi e poi inevitabilmente unirsi come due estremi di un punto stellato di cui il mondo non poteva privarsi.

Sono l’Arte e il vento sbrigliato che si fondono sulla tela. Tessono tempeste, sbattono in faccia vita. Lei la accende vivace, lui più tenue. O cupa. Di certo il tratto è un ineffabile unisono di perfezione nei contrari. È il colpo di polso che sovverte gli equilibri. È l’impercettibile differenza che spiazza i cuori e gli occhi di chi guarda.

Si allontana Guernica lasciando dietro solo angosce lise, da affogare a forza nei rossi e nei blu. Sorgono luci, sorge proprio quella luce insostituibile che sfiora il divino nell’attimo brevissimo di un equilibro perfetto.  Pulsa, il mistero magico della creazione, pulsa e si compie ritraendo i tratti di quella donna splendida, nella certezza superba di averle potuto dire che era sua. È lì che per Picasso finalmente si schiude uno spiraglio d’onda e che il tumulto del suo cuore si fa voce entusiasmante negli occhi di chi guarda.

Françoise è un giro di danza che non finisce mai, un volteggio che rimane nell’aria, quando si fa arrestare dai tedeschi, come nei suoi autoritratti che paiono dipinti da un soffio di vento, è una giravolta che incanta quando sorride, come quando a mento alto coccola i bambini.

Nasce vita da lei, e Picasso se ne nutre. Come d’un miele d’ambrosia di cui non si può fare a meno, come la donna, l’unica che gli dirà di no. Lo scriverà lasciando scorrer fuori tutto. E lo pubblicherà, malgrado lui. Anni di liti, di guerre forti, di minacce. Ma vince lei. E La mia vita con Picasso, che squarcia la trama umana di quel Maestro fragile, deflagra in un ’64 che lascia sui baveri ancora un po’ dei pulviscoli della guerra, staglia lo sguardo freddo sul nazismo incenerito dai suoi stessi orrori, ma ha già addosso la minigonna che accompagnerà le marce libere dell’imminente ’68. Esce così, quel libro, con lo stesso vigore frastornante che hanno le tempeste di Françoise. È il suo trionfo, la sua rivincita, e lui sa riconoscerglielo come solo i grandi sanno fare.

Un gigante, Picasso, una rivoluzione senza precedenti. Un temperamento intriso di una vita folle, ma disperatamente affabulante che va letto d’istinto nei tratti dei suoi quadri, ma poi si lascia decifrare per davvero solo tra le righe di chi ha saputo coglierne l’essenza.      

Tre parole semplici per colpire nel segno: lo fa Michela Tanfoglio, che, nel suo “La Mala Arte”, ripercorre attraverso un intero secolo, la vita di un uomo infinito, la sua spavalderia e le sue ferite forse mai rimarginate, il suo egocentrismo cosmico, la sua stranezza folle, il genio e i tanti amori, crudi sulla pelle e indispensabili alla sua anima. Viene fuori l’uomo, oltre gli abbacinanti baldacchini del mito. E forse è proprio questo, due passi appena dopo la scomparsa di Françoise, l’attimo magico in cui concedersi di catturarlo.

Jelka Giocoli Damiani

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